
Chatwin arriva a Buenos Aires nell'estate australe dell'anno 1974, mese di dicembre. Nella capitale argentina incontra Osvaldo Bayer, scrittore e regista, che gli darà dei libri e informazioni per il viaggio verso sud.
Anch'io incontrerò Bayer nello stesso appartamento del quartiere Belgrano di Buenos Aires, e lo storico argentino mi farà sedere sulla stessa sedia dove stava seduto Chatwin, 34 anni prima di me.
Qualche giorno dopo, Chatwin prende un bus notturno alla stazione "Patagonia", che non esiste più, o forse non è mai esistita, e il mattino seguente si ritrova in un villaggio anonimo della pampa argentina, dove sperava di incontrare un certo Bill Philips.
Il villaggio si chiama Cabildo e nella casa di Bill Philips, che in realtà si chiama David Bridges, disegno i movimenti dei personaggi del primo capitolo del mio libro.
Incontro la moglie di David, Anne-Marie, che Chatwin descrive come una donna attraente e abbronzata e il figlio Nicky, che all'epoca della visita dello scrittore era solo un bambino. Il giovane ingegnere mi dà un passaggio con il suo fuoristrada e alla fine di una giornata per me straordinaria, mi parla del frammento di gliptodonte che Chatwin gli portò in regalo dalla Patagonia.
Ci vuole un altro bus notturno per arrivare a Carmen de Patagones, antica porta di entrata della Patagonia selvaggia.
Mi sposto a Viedma e cammino piacevolmente sotto l'ombra di salici centenari pensando a V.H. Hudson, che qui veniva a studiare le abitudini degli uccelli migratori. Supero il ponte di ferro che portò Chatwin in Patagonia e poco oltre mi trovo negli occhi la sabbia di un deserto.
Chatwin arrivò nella piana secca del Chubut, qualche centinaia di chilometri più a sud, a ridosso del Natale 1974. Nella chacra (tenuta) Bod Iwan, di proprietà di Gerrallt Williams, che Chatwin nel libro chiama Ivor Davies, mi trovo a contemplare il soprammobile gallese della fotografia che aveva mosso la mia fantasia di viaggiatore. Ho davanti a me i personaggi del libro. Stiamo seduti al tavolo della grande sala. Io ho aperto davanti a me il libro di Chatwin, edizione italiana; Gualdo legge dall'edizione argentina, e il padre Gerrald segue la storia dall'edizione inglese. Dal libro balzano fuori le sue storie, le imprecisioni, gli errori madornali, mi dicono loro. Annoto ogni particolare. Noto anche che a pag. 37 dell'edizione italiana (Biblioteca Adelphi 117, 1996), che ho tra le mani, c'è un evidente errore di traduzione.
Settecento chilometri più a ovest, in direzione delle Ande, arrivo nella casa di una signora gallese che ha molte cose da dirmi su Chatwin e sui gallesi della Patagonia. Sono a Trevelin e la signora si chiama Clery Evans. Mi siedo sulla stessa sedia dove stava seduto lui e scopro alcuni particolari dei suoi movimenti. Adesso so che Chatwin trascorse il capodanno dell'anno 1974 nel ristorante di un albergo di Corcovado, un villaggio in pieno deserto, tra la Ruta 40 e le Ande. Da lì se ne andò a bordo dell'auto del padre di Clery e rimase a casa Evans qualche giorno a parlare del "Malacara", il cavallo mitico della storia dei gallesi di Patagonia. Clery ricorda che doveva occuparsi dell'ospite e di suo padre, che parlavano senza fine, mentre lei metteva in tavola le milanesas e la birra scorreva a fiumi.
Mi sposto a Cholila a bordo di un camion che trasporta tondini di ferro. Il poliziotto della stazione di Leleque ha preteso che l'autista mi prendesse a bordo. C'è aria di esame di guida nella cabina tra il giovane guidatore e l'altro conducente più anziano che lo sta controllando. Sono sulle tracce di Butch Cassidy e compagnia. All'inizio del Novecento i bandoleros nordamericani arrivarono qui per sfuggire agli agenti della Pinkelton, che volevano metterli sotto chiave. Metto giù la tenda al lato della cabaña che i nordamericani costruirono con le loro stesse mani usando tronchi a incastro, senza uso di chiodi.
A poche centinaia di metri dalla cabaña, nella casa del libanese padrone della tenuta, c'è aria di festa. Una donna venuta in Patagonia dalla lontana città di Milano fa gli onori di casa e prepara addirittura una pizza di benvenuto per il viaggiatore solitario che le sta riportando indietro il suo mondo lontano. Vicino a lei un signore dai modi garbati mi fa capire cos'é il sentimento degli emigranti.
Da Cholila scendo lungo la ruta 40, fino al villaggio di montagna di Las Pampas, dove incontro Patrocinio Solìs, un vecchio dall'aria assente e sofferta che appunta sul libro una serie di imprecisioni. Patrocinio e Solìs, intanto, non sono due famiglie che si rubano a vicenda il bestiame, come leggo dal libro, ma una persona sola. L'uomo mi fa notare che la festa descritta nel libro non era dovuta alla nascita di un bambino. Era una festa per la marchiatura dei vitelli, la stessa alla quale sono magicamente invitato anch'io.
Il giorno dopo, laggiù al confine con il Cile, dopo le operazioni di marchiatura e l'asado, annoto piacevolmente le mie osservazioni sul taccuino, mentre i gauchos presenti alla festa si preparano a giocare alla taba, esattamente come il giorno della visita di Chatwin. Non so se leggere il libro o guardare quello che sta succedendo davanti ai miei occhi. Ho intorno a me la magia del viaggio letterario.
Da Las Pampas torno su Rio Pico. Lì incontro il figlio della dottoressa russa che curò la ferita causata dalla caduta di cavallo di Chatwin; incontro pure una delle figlie della proprietaria dell'albergo dove soggiornò lo scrittore, un'araucana (non ebrea come scrive lui) dall'aria infelice che non sopporta la presenza ingombrante di Chatwin. Prendo in mano lo spartito davanti al pianoforte dai tasti rovinati sul quale la cantante svizzera Andrea Kreutzer de Hommenberg suonava il suo pezzo forte, Novia Palida.
Seguendo lo sterrato infame della 40, scendo in autostop fino alla città di confine di Perito Moreno, dove faccio la conoscenza della signora che preparò a Chatwin il piatto di lenticchie e ravanelli. L'uomo che gli trovò un passaggio sulla pista diretta a nord-ovest, non esiste più. Parlo con il figlio. Qualche ora dopo prendo il bus del deserto che mi porta fino all'oasi di Bajo Caracoles, da dove, il giorno dopo, trovo un fortunato passaggio per il villaggio immerso nel deserto di Lago Posadas.
Laggiù, sulle pareti lisce del monolite di basalto rosso, scopro i disegni rupestri che vide Chatwin. Su un altro monolite poco lontano trovo le tracce della presenza degli indiani. Un vero campo di caccia ancestrale con le boleadoras che mi guardano. Le raccolgo e penso alla magia del mio viaggio.
Il giorno dopo, con l'aiuto di un catalano, ricostruisco il percorso dentro al deserto dipinto di colori irreali e cammino, cammino per due giorni, solo, con lo zaino sulle spalle, senza una bussola. Adesso che l'ho conosciuto, che ci siamo studiati a vicenda, mi posso fidare. Il libro mi dice cosa fare.
Dopo una notte burrascosa, arrivo sotto la casa patronale dove il tedesco dell'estancia indicò a Chatwin la «fessura nelle rocce nere che si profilavano all'orizzonte». E vedo magicamente anch'io quel passaggio; corro, volo quasi sulle sue tracce. Seguo il deserto punteggiato da carcasse di vitelli e laghi salati, che fanno pensare alla morte portata dai puma, e alla fine della pista di cavalli indicata da Chatwin arrivo all'estancia del giovanotto dal poncho a righe descritto nel libro.
Quando esausto mi siedo al tavolo della cucina piastrellata di bianco, dove le donne prepararono a Chatwin «caffè, torta di cioccolato, formaggio pecorino e un'aromatica gelatina di mele», capisco che il libro non ha più segreti per me. Sono un viaggiatore raggiante.
A Paso Roballo Chatwin descrive la meseta Buenos Aires che sale verso ovest, come la vedo anch'io. Vedo anche il cono del vulcano spento, i cigni dal collo nero e le altre rocce colorate descritte nel libro. A est di quelle montagne, però, Chatwin prende un abbaglio. Le due colonne che si alzano maestose sopra le acque turchesi danno anche il nome al lago. Si tratta del lago Columnas. Il lago Ghio, che cita lui nel libro, si trova a qualche decina di chilometri di distanza.
E mentre i gauchos preparano i loro cavalli, io mi accingo a rimettermi in marcia. Ho davanti a me un centinaio di chilometri di deserto da fare a piedi. Fa freddo e prima di partire mi siedo a bere un caffé vicino alla stufa. Prima di affrontare il deserto, ci vuole proprio un mate.
Chatwin racconta che da Paso Roballo proseguì a piedi verso est, anzi... addirittura corse, precedendo la tempesta. Mi lascio andare anch'io... e corro sullo sterrato, sospinto dallo stesso vento che soffia dal Cile. Le etichette di Champagne che vide lui ai bordi del sentiero sono state portate via dal tempo, dall'umidità e dal vento.
Chatwin arrivò sulla costa atlantica nei primi giorni di febbraio 1975; poi scese verso sud. Lo seguo come un'ombra. Lo sento. Attraverso, come lui, «tre città senza interesse, San Julian, Santa Cruz e Rio Gallego», e proseguo, in compagnia di un simpatico camionista sulla monotona Ruta 3.
Seguendo gli sguardi spaesati dei marinai di Magellano, attraverso lo stretto che porta il suo nome. La Terra del Fuoco mi appare come una distesa dolcemente ondulata di colore giallo.
A Rio Grande, Chatwin incontra un prete nella missione dei salesiani, dov'erano andati a rifugiarsi gli ultimi indios, prima del massacro. Incontro padre Ticò, lo stesso prelato che aveva incontrato lui nel suo viaggio, che mi legge, dalle cronache del passato, i momenti salienti dei primi incontri con gli indios selk'nam, i giganti.
In città incontro un'italiana che gli indios della Terra del Fuoco li aveva conosciuti per davvero. Uno scrittore mi dà un passaggio fino al "salotto di un'estancia inglese", dove Chatwin si fermò qualche giorno a riposare, troppo stanco pe poter continuare il suo viaggio.
In bus, superando il passo Garibaldi, raggiungo la città più a sud del mondo.
A Ushuaia visito il carcere-museo dove all'inizio del Novecento seppellivano i delinquenti più incalliti e gli anarchici in fuga dall'Europa. Come Simon Radowitzky, il ragazzo che riuscirà ad evadere con l'aiuto dell'ultimo pirata della Terra del Fuoco, un certo Pasqualino Rispoli di Torre del Greco, come racconta Chatwin.
Prendo contatto con le storie degli ultimi indios delle canoe: gli yamanas. Li vedo sfrecciare sulla cresta del mare con le loro imbarcazioni fatte di corteccia d'albero. Un mucchio di braci appoggiate sul un cumulo di sabbia tiene loro compagnia.
A Harberton visito la prima estancia della Terra del Fuoco, dove Chatwin si fermò a dormire, prima di partire nel viaggio a piedi che lo porterà fino al lago Kami, e poi a Viamonte.
Chatwin arriva a Punta Arenas, nella Patagonia cilena, mentre la gente ha ancora negli occhi le immagini del colpo di stato del generale Pinochet. In città, mi metto a ricercare questi episodi. Parlo con una signora inglese che incontrò Chatwin sul sagrato della chiesa di St. James, una domenica uggiosa del marzo 1975. Seguendo la mia inchiesta, arrivo fino all'Istituto della Patagonia dove parlo con lo storico Matéo Martinic', che incontrò Chatwin nella sua biblioteca. Lo storico non ama Chatwin, anzi, lo disprezza, e mi dice che non metterebbe mai "In Patagonia" tra i libri che lui ama. Potrebbero imbrattare i libri della sua biblioteca. Deve essere imbarazzante per lui continuare a ricevere viaggiatori che gli parlando dello stesso personaggio. Chatwin sembra come un simulacro che spaventa gli abitanti di questa terra.
Nella città del fiordo di Ultima Speranza di Puerto Natales incontro una signora che si indigna di fronte alle parole che leggo dal libro. Chatwin la descrive come una donna spensierata, con amanti che entravano dalla porta sul retro di casa con squame di pesce sui loro maglioni. Ma la donna non ci sta e urla la sua rabbia: "Non è vero, non è vero. Io a quei tempi avevo un marito". In città, incontro anche un vecchio tedesco che mi racconta la vera storia dl milodonte. Viaggio con lui fino a Puerto Consuelo, dove tocco con mano uno scritto autografo di Chatwin.
Di ritorno a Punta Arenas vedo l'edificio dalle sembianze del Partenone cadere sotto i colpi di una ruspa e penso che la Patagonia di Chatwin si sta disintegrando sotto i miei occchi.
Lascio la città e la tristezza di questo momento. Cammino sulla riva dello stretto di Magellano finché vedo emergere dagli abissi di un mare perfido e traditore la sagoma del relitto affondato.
Era l'ultima fotografia che mancava al mio viaggio.
Il giorno dopo, dal molo di Punta Arenas, vedo Chatwin lasciare la Patagonia a bordo del vascello che fu un tempo il "Ville de Haiphong".